Pet therapy al San Raffaele Turro di Milano – Rivista Consumatori
Un progetto di Coop Lombardia aiuta le persone che soffrono di disturbi alimentari.
I disturbi alimentari riguardano oltre tre milioni e mezzo di persone e colpiscono in particolare i ragazzi tra i 12 e i 25 anni.
L’età tende ad abbassarsi e aumenta il numero di maschi coinvolti, circa il 10%.
Stefano Erzegovesi, psichiatra e nutrizionista, responsabile del centro disturbi alimentari dell’ospedale San Raffaele Turro di Milano, ci aiuta a mettere a fuoco alcuni aspetti di questo disagio.
Colpisce i giovani, – ci spiega –, ne soffre circa l’1,5% della popolazione e la mortalità è alta, intorno al 10%, se consideriamo che si tratta di una popolazione giovane altrimenti sana. Non si può parlare di un’esplosione dei disturbi alimentari, tuttavia sono in crescita le cosiddette forme parziali, cioè tipologie meno gravi di anoressia o di bulimia o di disturbo da abbuffate (binge eating).
Un esempio sono le ragazzine che si rimpinzano di cibo e bevono con gli amici il sabato sera poi vomitano, oppure i ragazzi che mettono su chili perché hanno un’alimentazione emotiva. Dinamiche che capitano in un’età in cui il contesto sociale e il confronto con i coetanei sono importanti. Non bisogna archiviare questi comportamenti come ragazzate, ma osservarli come campanelli d’allarme. C’è, nell’immaginario collettivo, l’idea che l’adolescenza per definizione porti con sé anche atteggiamenti vistosi di un malessere che è giusto non medicalizzare, tuttavia quando la questione alimentare diventa un pensiero fisso, magari non clamoroso ma persistente, bisogna prestare attenzione.
Le cause che portano a questo disagio sono varie e difficili da inquadrare: un tempo ci si focalizzava sulle madri anoressogeniche, figure invadenti nella vita dei figli accanto a padri assenti.
I genitori non devono colpevolizzarsi, la comunicazione tra i familiari è sicuramente importante – sottolinea Erzegovesi – ma più recentemente si è compreso che le ragioni viaggiano su livelli più complessi: dal Dna all’espressione genica, dalla nascita alla crescita, alla nutrizione nella prima infanzia, ai modelli di magrezza imposti dalla società attuale. Ognuno di questi è un fattore di rischio ma nessuno, da solo, può essere la causa di un disturbo alimentare. Quello che è emerso in vari studi scientifici, e che rappresenta un filo conduttore, è l’importanza, come fattore di rischio, del giudizio espresso dagli altri, in particolare da parte dei coetanei, su come mangiamo o su come siamo fisicamente.
La prima cosa da fare, se abbiamo un sospetto di questo tipo sui nostri figli, è portarli dal pediatra che eventualmente consiglierà di rivolgersi ad un centro specializzato. Si tratta infatti di un iter di cura che deve essere fatto da un team multidisciplinare e non da un unico specialista.
Per la prima volta è stato intrapreso un percorso di Pet Therapy con i pazienti del San Raffaele Turro sofferenti di un disturbo alimentare.
Il progetto, Una carezza in una zampa, è stato sostenuto da Coop Lombardia e curato dai professionisti del Siua, la scuola di interazione uomo animale che segue l’approccio cognitivo zooantropologico, frutto del pensiero del professor Roberto Marchesini, che da molti anni studia e si occupa della relazione uomo-animale. È importante sottolineare che nei progetti di Zooantropologia Assistenziale l’animale non è uno strumento, ma un altro essere vivente con il quale costruire una relazione.
Molte pazienti mi hanno sottolineato la bellezza di questa esperienza – racconta Erzegovesi – proprio perché il cane non è stato solo una presenza distraente, ma partecipativa all’interno di un percorso costruito su una relazione. L’animale sposta l’attenzione del paziente da un piano teorico, il colloquio con lo psicologo, ad un processo di immedesimazione, diretta e non giudicante. Durante gli incontri, le psicologhe raccontavano lo stato d’animo del cane, così i pazienti avevano modo di vivere un’esperienza nuova, in cui le emozioni possono essere diverse da come si presentano. Per una ragazza è stato illuminante quando l’operatrice ha spiegato che lo sbadiglio di un cane, per esempio, non significa necessariamente essere annoiato ma potrebbe essere la manifestazione di un altro stato d’animo. Dunque quello che gli altri vedono non è necessariamente quello che è. Qualcuno mi giudica menefreghista – ha pensato la paziente – quando invece sono a disagio. Una presa di coscienza importante. Il cane può essere quindi una sorta di interprete, che parla un linguaggio emotivo di grande immediatezza, senza filtri e senza giudizi.
San Raffaele Turro è aperto a queste nuove esperienze – aggiunge Salvatore Mazzitelli, direttore sanitario – perché negli ospedali del Gruppo San Donato, al quale apparteniamo, mettiamo al servizio della gente i medici migliori, la ricerca più all’avanguardia e l’eccellenza dell’assistenza, ma vogliamo anche, per citare il Manifesto dei valori condivisi del Gruppo, che ogni giornata trascorsa nella nostra struttura si trasformi in un’esperienza positiva per i pazienti. Comunque, ci tengo a sottolineare che in questo percorso verrà stilato un protocollo di ricerca per conoscere finalmente il reale impatto della Pet therapy su specifiche patologie.
Articolo di Silvia Amodio pubblicato sulla rivista Consumatori – edizione Lombardia di marzo 2018.